Arte e Cultura
Trento Film Festival: la Natura e la Terra vanno ascoltate

“Com’è bello stare nella natura, nel silenzio, in pace.” Quante volte ci è capitato di sentire questa frase? Per quanto poetica possa sembrare, non dobbiamo però dimenticare che stare nella natura non vuol dire essere in un luogo silenzioso, anzi.
La natura ci parla, così come il nostro pianeta. Ogni cosa è comunicazione: tutto è connesso con tutto. Suoni, rumori, vite, molecole. Ogni cosa trasmette qualcosa: bisogna solo imparare ad ascoltare.
Quello che questa 70^ edizione del Trento Film Festival è riuscita a comunicare è che l’essere umano vive in un momento in cui deve iniziare a comprendere l’importanza assoluta dell’interagire in maniera sana ed approfondita non solo con tutto ciò che ci circonda, ma anche con il pianeta stesso su cui abita.
In “Ora sono diventata foresta” di Irene Dorigotti c’è stata occasione di immergersi completamente tra gli alberi di un bosco, tra le luci e le ombre che filtravano attraverso le foglie. Lentamente si è arrivati a sprofondare in una dimensione onirica, cullati dal lento avanzare del tempo e della pellicola. Un ascoltare e vedere con non tanto con la meraviglia e lo stupore negli occhi, ma con la consapevolezza che tutto ciò che ci circonda riesce ad essere reale e costante, mentre l’essere umano tende invece a perdersi nei meandri di se stesso, perdendosi così molti attimi unici ed esperienze che andrebbero invece colte subito.
Ed è sul tema dei cambiamenti climatici che affondano poi le radici – anche solo in parte – altre pellicole.
Commoventi gli interventi in “Vaia, la lunga notte. Testimonianze” di Stefano d’Amadio. Tutti ricordiamo la terribile notte tra il 29 e il 30 ottobre 2018 quando violente raffiche di vento e piogge incessanti hanno causato la distruzione di oltre 42.000 ettari di foreste alpine nell’Italia nord orientale. “Definita come la peggior catastrofe forestale del nostro paese, la tempesta Vaia ha cambiato per sempre il volto di quei boschi. Proprio i volti sono gli attori protagonisti di questo documentario. La narrazione di quella tremenda notte viene scalzata, per dar spazio a ciò che da essa può ripartire.” Certo, perché se da un lato ci si trova a coesistere con una tale distruzione, da un altro si guarda invece verso il futuro, verso la rinascita.
È il cerchio della vita che accomuna tutto il pianeta: si parte dalla polvere, si crea, si distrugge e si torna polvere. Una sorta di serpente che si morde la coda, nell’inesorabile proseguo del suo gesto senza fine. Perché alla fine, che cosa rappresenta l’uomo davanti alla natura, davanti al tempo? L’essere umano non è che una minuscola formica paragonato al pianeta che abitiamo.
E questo è stato ben chiaro in “After Antarctica” di Tasha van Zandt. “La prima epica traversata del Polo Sud a piedi, compiuta nel 1989–90 da sei uomini di paesi diversi, rivive negli splendidi filmati originali e nei ricordi di uno di loro: Will Steger, leggendario esploratore polare, testimone diretto dei più grandi cambiamenti nelle regioni polari del pianeta. Attraverso avvincenti filmati d’archivio che rendono il passato più attuale che mai, il film diventa un thriller naturalistico che ci tiene con il fiato sospeso. Oggi, le riflessioni del settantenne Steger si cristallizzano in una profonda autobiografia filmata, una meditazione sulla mortalità e un requiem per il ghiaccio.”
La trama racconta e mostra già quello che poi si ritrova nella pellicola. La crudeltà di un continente ancora adesso poco conosciuto, un luogo che lentamente illude il gruppo di Steger, salvo poi colpirlo con quanta più forza possibile. Una riflessione profonda che si riflette sulla vita che siamo soliti vedere tutti i giorni dal caldo e dalla comodità delle nostre case.
Non sarebbe forse tutto più semplice se l’essere umano ricordasse di avere delle gambe e non delle radici? Come sarebbe la vita se tutti avessero quella scintilla di incoscienza, intraprendenza e voglia di scoprire non solo i più remoti angoli del mondo, ma anche della propria persona, della propria anima? Temi tra l’altro affrontati anche in “Una città di carta” di Guido Laino, la storia dei sogni di una comunità – quella del Tesino – che è andata per il mondo a cercare fortuna e che oggi cerca di tenere vivo il ricordo della propria epopea passata.
Nella storia della piccola comunità del Tesino, infatti, c’è un’attività di vendita ambulante di stampe che ebbe una clamorosa fortuna tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘900. “Fra tutte le città in cui i tesini si sono stabiliti, San Pietroburgo è la più adatta a rappresentare la destinazione lontana di ogni emigrante” ed è proprio quella leggerezza nel partire e nell’andare alla scoperta del mondo che in questa pellicola si ha occasione di guardare i bellissimi scorci di San Pietroburgo, una delle città più calcolate – nella loro costruzione – e quasi irreali del mondo.
Ed è ancora nella ricerca di risposte che si svolge invece l’attesissimo “Fire of Love” di Sara Dosa, film tra l’altro più votato dal pubblico tra i documentari lungometraggi in Concorso e vincitore del Premio del pubblico – Miglior Lungometraggio – DAO-Conad.
“Un film d’avventura unico, poetico e visivamente stupefacente su una coppia di scienziati francesi, montato interamente con i loro filmati di viaggio alla ricerca di vulcani attivi negli anni ’70 e ’80. Gli intrepidi vulcanologi francesi Katia e Maurice Krafft hanno viaggiato per il mondo alla ricerca di eruzioni vulcaniche e nuvole di cenere. Fortunatamente, hanno filmato tutti i loro viaggi, e il loro incredibile archivio personale di pellicole in 16mm è una testimonianza avvincente di una vita dedicata all’esplorazione. Realizzato interamente con i loro filmati, lettere e appunti, il film di Sara Dosa è quanto di più lontano da un ritratto tradizionale si possa immaginare. FIRE OF LOVE è arte cinematografica pura, poetica ed estroversa, con l’esuberanza di un film della nouvelle vague francese, e ci offre alcuni dei momenti più belli – e tragici – che si possa immaginare di vedere in un film.”
Una storia dai risvolti drammatici, ma di un’importanza fondamentale nella conoscenza e nella diffusione di materiale riguardanti i Vulcani.
Un messaggio potente ancora adesso: non si conosce mai abbastanza di questo pianeta, ed è importantissimo che ci siano ancora delle menti abbastanza brillanti e coraggiose da volersi imbarcare in viaggi da cui si rischia di non tornare mai.
Perché alla fine, la conoscenza e le risposte sono quanto di più necessario all’uomo per non solo convivere al meglio con il pianeta Terra, ma anche per riuscire ad instaurare con esso un rapporto di condivisione e non solo di sfruttamento. Più si riescono ad avere risposte e più ci sarà sempre l’occasione di salvare sempre più persone, in caso di drammatici incidenti.
Perché le risposte portano alla conoscenza e quest’ultima porta ai miglioramenti che possono fare la differenza.
E, forse, è il caso che tutta l’umanità inizi ad essere meno egoista e ad aprirsi di più verso l’ignoto. Perché quando si parte per un viaggio spesso si trovano le risposte tanto cercate, certo, ma non è raro che invece le risposte necessitino molto più tempo di quello previsto. E sono proprio quelle le esperienze che permettono di conoscere nel profondo la propria essenza e di creare una vera connessione con questo mondo che sta tanto soffrendo proprio a causa dell’essere umano.
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