Società
Droga libera ed eutanasia nuovi «diritti»: ma saremo tutti più felici?

Docente e saggista, collaboratore di vari giornali nazionali e locali, Francesco Agnoli si occupa da tanti anni di bioetica. E’ presidente del MpV trentino e membro dell’associazione Liberi & Forti (dedicata al grande statista Alcide De Gasperi, di cui Agnoli ha curato, recentemente, una biografia).
Professor Agnoli, vorremmo sapere il suo pensiero sull’eutanasia…
«Comincerei con il dire che la confusione più tipica che si fa di solito è quella tra accanimento terapeutico ed eutanasia. L’accanimento terapeutico, che pure non è così facile da definire, è da sfuggire, così come l’abbandono terapeutico. L’eutanasia legale nasconde mille pericoli. Basta osservare cosa accade nei paesi dove l’eutanasia è legale: medici che uccidono di propria iniziativa, per liberare i letti o per delirio di onnipotenza; cliniche che trasformano la morte altrui in business; parenti che scelgono la morte dei loro cari per affrettare l’ottenimento dell’eredità; anziani che chiedono la morte perché spinti a sentirsi “un peso” per lo stato e la famiglia…»
Questo a qualcuno può fare comodo?
«Se penso al programma eutanasico nazista, si insegnava ai giovani a calcolare quanto costasse allo stato mantenere un malato, un disabile, in un periodo di crisi economica. Oggi la crisi economica c’è, e il numero di anziani, in Occidente, cresce di continuo, mentre diminuiscono i giovani. Ad alcuni Stati farebbe molto comodo risolvere il problema dei costi sanitari -in continua crescita- eliminando un po’ di malati.
Per questo ogni tanto emergono casi di medici incentivati in vario modo dai ministeri della salute a risparmiare sugli anziani; oppure c’è chi, come Jacques Attali, notissimo economista e banchiere francese, già diversi anni orsono auspicava l’introduzione dell’eutanasia nei paesi capitalisti, per motivi libertari ed economici, poiché “dal momento in cui si superano i 60-65 anni, l’uomo vive più a lungo di quanto non produca e allora costa caro alla società”. Insomma, sì, c’è anche questo, in gioco, per un fatto semplicissimo: la sanità è la voce di spesa più ingente negli stati occidentali!»
Lei sembra suggerire anche un paragone tra l’eutanasia nazista e quella proposta oggi dai radicali. E’ così?
«Sì, il paragone può sembrare forte, ma è ben fondato. I nazisti vedevano nel suicidio una sorta di diritto umano (contro l’idea secondo cui la vita appartiene a Dio, unico che può tanto darla quanto toglierla): per questo molti di loro, compreso Hitler, giustificarono il suicidio in nome dell’ateismo e poi lo scelsero, coerentemente, alla fine dei loro giorni; difesero e praticarono l’eutanasia come necessaria per purificare la razza, per risparmiare, ed anche, lo si diceva apertamente, per compiere un “gesto di pietà”. Anche i radicali rivendicano il diritto al suicidio in nome di un ateismo più o meno esplicito e lo presentano come un atto di pietà verso chi soffre. Nello stesso tempo predicano il cosiddetto “rientro dolce”, cioè la necessità, a loro dire, di ridurre la popolazione mondiale di due terzi: una sorta di sterminio di massa che non si capisce bene come vada realizzato (proprio con l’eutanasia?), ma che appare anch’esso piuttosto “nazista”.»
Può approfondire il tema nazismo-eutanasia?
«Tema amplissimo, ma mi limito a ricordare che lo storico Edouard Husson, in “Heydrich e la soluzione finale. La decisione del genocidio” (Einaudi, Torino, 2010), ricorda la partecipazione degli artefici dello sterminio degli ebrei, Eichmann e Heydrich, al programma eutanasico T4. I nazisti cominciarono uccidendo, prima degli ebrei, altri tedeschi, malati, infermi, handicappati… convinti che l’eutanasia fosse “un elemento chiave della riconquista del ‘diritto ad uccidere’ contro duemila anni di civiltà giudeo-cristiana”.
La nostra civiltà è fondata sul divieto di uccidere e sul dovere morale di curare: ha partorito, infatti, gli ospedali, uno dei luoghi più odiati dai nazisti, perché è qui che si mantengono in vita e si curano quelli che la natura -secondo il loro dire- spazzerebbe dalla faccia della terra per impedire l’“indebolimento della razza”.
Aggiungo che l’eutanasia nazista incominciò “piano piano”, con i casi pietosi, ma scivolò presto lungo il classico “piano inclinato”: si parte con qualche “eccezione”, e poi la casistica si amplia sempre di più (come sta succedendo in Belgio, Olanda, Oregon, da anni). Robert Jay Lifton, nel suo monumentale I medici nazisti (Rizzoli, Milano, 2016), ricorda che si andò “via via ad allargare la rete delle uccisioni e a facilitare la realizzazione degli obiettivi ultimi del Reich… anche le condizioni prese in considerazione come motivi per l’uccisione si ampliarono a comprendere il mongolismo (non incluso in principio) e vari casi borderline o deficit limitati, fino all’uccisione di ragazzi designati come delinquenti giovanili”, sino ad arrivare ad una “eutanasia selvaggia”».
Ma oggi non ci sono questi rischi, l’eutanasia sarò solo quella scelta liberamente, individualmente…
«Vede, anzitutto non è che i medici e il personale sanitario inclini a scelte folli non esistano: si tratta certamente di una piccola minoranza, perché la gran parte dei medici vuole curare i suoi pazienti, ma se i medici “euta-nazisti” esistono anche oggi che l’eutanasia è vietata, quanti saranno quelli che usciranno allo scoperto una volta permessa? Basta fare una piccola ricerca in rete e si troveranno decine e decine di “angeli della morte” che hanno ucciso pazienti inconsapevoli nelle corsie degli ospedali di paesi democratici».
Oltre alle eutanasie imposte in questo modo, ci possono essere altre forme di costrizione, più o meno subdole?
«Per scegliere liberamente bisogna essere veramente liberi, dal dolore, dai condizionamenti, da pressioni esterne di ogni genere. Se l’eutanasia divenisse legge, sarebbe già così un forte condizionamento. Oggi siamo condizionati, positivamente, da un’idea ben chiara: se abbiamo un parente malato, dobbiamo accudirlo, soccorrerlo, curarlo. E’, quantomeno, un dovere di carità. Ma se passasse una legge eutanasica, allora al posto del dovere, subentrerebbero spesso l’interesse, il fastidio, la fatica, l’incuria… Certo, a volte la fatica del vivere può arrivare alla disperazione e in questi casi le persone, purtroppo, si possono suicidare (nessuno, però, metterà in galera un suicida!).
Ma che lo facciano da sole è una cosa, che la società si incarichi prima di legittimarle, assecondarle e poi magari anche di forzarle, in modo più o meno occulto, è del tutto diverso. Rileggerei quanto scriveva sul Corriere della sera, il 16 aprile 2005, l’ambasciatore Sergio Romano: “non vorrei che di queste pratiche (biotestamento, ndr), il giorno in cui fossero previste da una norma, si servissero i congiunti del vecchio malato per sospingerlo dolcemente verso l’eternità. Il mondo, caro Manconi, è molto meno buono di quanto non pensino i paladini delle campagne per la ‘buona morte’.
I vecchi, quando non si decidono a morire, esigono tempo e cure. Se sono poveri, pesano sulle casse familiari. Se sono ricchi e benestanti consumano denaro che potrebbero lasciare agli eredi. Anche i parenti più affezionati finiscono per pensare, in queste circostanze, che il povero vecchio farebbe un favore a sé e agli altri se prendesse congedo. Qualcuno intorno a lui comincerebbe a lanciare qualche segnale e qualcun altro farebbe più esplicite allusioni. Fino al giorno in cui il pover’uomo o la povera donna arriverebbero alla conclusione che è meglio andarsene piuttosto che essere circondati da gente sgarbata e impaziente”».
Dunque un’eutanasia tira l’altra?
«E’ evidente. Del resto è così anche per il suicidio. E’ noto a tutti l’ “effetto Werther”, cioè il fatto che i suicidi tendono a moltiplicarsi per emulazione, per imitazione, come all’epoca in cui il famoso romanzo di Goethe, I dolori del giovane Werther, determinò un’epidemia di suicidi tale da indurre alcuni governi a vietare la diffusione del libro. Ebbene, quando una cultura finisce per accettare e legalizzare il suicidio assistito, anche le barriere religiose, culturali e morali, di fronte a questo gesto estremo, cadono, ed è inevitabile che l’eutanasia legale di qualcuno influenzi e favorisca altre eutanasie, a catena.
Un esempio riportato da un personaggio non sospettabile come Umberto Veronesi, forse il più celebre propagandista dell’eutanasia in Italia, ci dice dove possa portare l’idea di una società che invece di farsi carico del dolore dei suoi membri, si dispone ad eliminarli. Scrive Veronesi: “Mi ha raccontato un amico, un medico in un paese in cui la legge consente il suicidio assistito: ‘Ho accompagnato un mio paziente, che voleva essere aiutato a morire. L’inviato dell’organizzazione ha preparato la pozione letale, il paziente ne ha bevuta la metà e poi ha avuto un ripensamento. L’incaricato gli ha detto: ‘Guardi che così rischia di avere delle sofferenze indicibili. Beva tutto perché io sono venuto qui perché lei finisca di bere!’ Il paziente ha obbedito ed è morto” (Umberto Veronesi, Il diritto di morire, Mondadori, 2005)».
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