Fiemme, Fassa e Cembra
La storia di Michela: «La mia vita come un arcobaleno e un sogno da raggiungere»
La storia di una ragazza disabile, di una vita in salita piena di discriminazioni, commiserazione, ansia, tristezza o depressione, attacchi di panico, isolamento sociale, fobie sociali, lesioni fisiche ed episodi di bullismo

«Vi racconto la mia storia che è come un arcobaleno dove ci sono tutti i colori, dal rosso al violetto, specchio di una vita fatta di bianco e nero, che rappresentano i momenti alti e bassi che hanno segnato fino ad oggi i miei 41 anni». Comincia con queste parole la storia di Michela, una ragazza disabile dalla nascita.
La sua, come per molti disabili, è il racconto di una vita sempre in salita, di una diversità che condanna a subire, specie in età scolastica, atti di bullismo. Una vita piena di discriminazioni, di continui cambiamenti che provocano commiserazione, ansia, tristezza o depressione, attacchi di panico, isolamento sociale o fobie sociali e a volte lesioni fisiche.
Anni costellati di errori anche da parte dei medici, che invece di migliorare la sua situazione hanno contribuito a renderla ancora più complicata.
L’11 gennaio del 1981 Michela dopo una gravidanza normalissima è pronta a venire al mondo presso l’ospedale di Gallarate. Ma succede qualcosa che cambierà il corso della sua vita e quello della sua famiglia. «I medici – ricorda Michela – dissero alla mamma che la sala parto non era pronta e nacqui mezz’ora dopo il termine e senza piangere. Una grossa perdita di liquido amniotico andò a finire dentro di me e diventai cianotica. Parte del liquido si era fermato nel mio cervello nella parte che controlla i nervi delle gambe».
In quel momento inizia il calvario, la bambina crescendo non riesce a «gattonare» e nello sviluppo è evidente la difficoltà di rimanere in piedi da sola. Una tragedia. La diagnosi definitiva è drammatica: paraparesi spastica
Intanto la famiglia nel dicembre del 1998 decide di stabilirsi in Trentino, precisamente a Predazzo in val di Fiemme visto che la mamma è originaria di quel paese.
Per Michela a partire dall’età di 6 anni iniziano così anni di riabilitazione, con la speranza di poter un giorno fare un intervento che possa mettere finalmente a posto le cose.
Il momento arriva, ma i medici come durante la nascita, commettono un grave errore e operano entrambi le gambe invece che solo la destra. La situazione diventa ancora più drammatica.
«Sono stata 40 giorni con i gessi fino all’inguine. Un giorno i miei mi portarono in ospedale una bambola che di notte s’illuminava e diventava fosforescente – ricorda simpaticamente Michela – e la cosa una notte spaventò non poco un’infermiera che chiese aiuto alle colleghe. Quello non è stato un periodo facile per me, per fortuna in camera c’erano dei bambini che giocavano con me, e anche se non potevo muovermi mi divertivo».
Per lei segue poi un lunga riabilitazione e delle continue medicazioni sulle cicatrici in attesa di iniziare le scuole elementari dopo la presa di coscienza che dopo l’operazione la situazione era di molto peggiorata.
Ma Michela non si perde d’animo, «le scuole elementari furono abbastanza belle anche se io non mi accettavo e per me era difficile capire il perché di tutto quello che mi era capitato, poi vedere tutti i bambini correre e camminare in modo normale e felice mi faceva sentire infelice, volevo giocare con gli altri, fare ciò che facevano loro e dover stare seduta e non poter fare nulla mi rendeva così triste. Avere una maestra di sostegno che ogni giorno in classe mi divideva dagli altri era la cosa più brutta».
Immaginate una bambina che non può fare l’ora di ginnastica, presa in giro dai compagni per come cammina, oppure ignorata alla festa di compleanno degli amichetti. I bambini di quell’età, proprio per la mancanza di consapevolezza spesso possono essere davvero devastanti.
Ma pur nel dramma e nella sofferenza Michela dimostra grande umanità e maturità riuscendo a pensare a chi sta peggio di lei: «Molte cose mi facevano stare molto male quando ero piccola, ma crescendo fu ancora peggio. Alle medie alcune professoresse mi volevano bene, mentre la maggior parte della classe mi ignorava. Poi però vedevo due ragazzi che erano stati ancora più sfortunati di me, uno era in carrozzina e ceco e l’altro era deformato. Ma erano molto simpatici. Almeno io potevo fare delle gite con la classe. Mi ricordo che siamo andati a Nizza, Sanremo e Montecarlo, tre giorni bellissimi e divertenti. Durante quei viaggi camminavo anche con le stampelle ed ero felice e orgogliosa di me stessa».
Alle superiori per Michela iniziarono gli episodi di vero e proprio bullismo, «è stato bruttissimo – ricorda – io non sapevo come difendermi, buttavano la mia cartella nella spazzatura, mi rubavano gli astucci e le matite e poi dicevano che avevo l’aids o che puzzavo. Andare a scuola era diventato un incubo, tutti i giorni subivo di tutto, arrivavo a casa piangendo e non avevo più voglia di studiare. Per me quallo che stavo subendo era ancora peggio di essere disabile, mi sentivo sempre più uno schifo. I professori sapevano e non facevano niente per me ed era durissima andare avanti».
Michela un giorno trova la forza di dire tutto alla mamma che reagisce e dopo aver parlato con il preside della scuola decide di togliere la figlia da qualla scuola. Mamma mi disse: «Miki ti ho tolto da questa scuola». «Ero più tranquilla, almeno non avrei più subito nulla anche se dentro di me era difficile capire il perché di tutto questo. Ero arrivata anche a pensate che fosse colpa mia»
L’anima è comunque quella di una guerriera silenziosa per questo Michela si cerca un’altrra scuola e intanto prende lezioni da una sua professoressa che le da la possibilità di proseguire gli studi, «Grazie a lei finalmente un po’ alla volta riuscii a trovare la serenità che avevo perduto, e dopo due anni presi il tanto agognato diploma».
È il primo importante traguardo di Michela: «Ero felice, potevo dimostrare agli altri le mie capacità nonostante ciò che avevo passato, grazie alla mia forza di volontà e impegno finalmente potevo dire brava a me stessa. Durante questo percorso conobbi tre ragazze che mi volevano bene e mi accettavano per come ero. È stato un momento molto felice».
La maggiore età porta in dono una grande passione a Michela, infatti s’innamora dei cavalli. Comincia a frequentare il maneggio insieme alla mamma e piano piano monta i cavalli. Il primo si chiamava Flick, (foto) un cavallo olandese color cappuccino con la criniera e la coda bionda.
«Più passavo il tempo con Flick più mi piaceva e poi sentivo diminuire la mia disabilità, ero diventata bravina e a volte mi prendevano come esempio per insegnare ad altri ragazzi. Sembrava che nessuno si accorgesse della mia disabilità».
Nel 1999 a rapire il cuore di Michela fu una cavalla dolcissima e coccolona: il suo nome era Mora un incrocio nordico argentino con il manto marroncino scuro, quasi nero con grandi occhi marroni. Per lei è un colpo di fulmine, un amore a prima vista che durerà molti anni.
La sfortuna è però in agguato, iniziano infatti i problemi al piede sinistro. «Dicevano che poteva trattarsi di una frattura da stress, ma pareva che i medici non ci capissero un granchè». Ma siccome sappiamo bene che le sfortune spesso non arrivano mai da sole succede un’altra cosa che segnerà per sempre Michela. «Con la mia cavalla c’era qualcosa che non andava e pareva avesse problemi ad una zampa. La notte del 27 luglio non avevo dormito e fatto dei brutti sogni, era come un presentimento che fosse successo qualcosa a Mora. Quando arrivai al maneggio quel giorno mi dissero che era morta. Scoppiai a piangere e tutti mi abbracciarono per consolarmi, si era spezzato tutto quello che mi dava coraggio e forza».
Michela torna a casa disperata e in lei si spegne la voglia di cavalcare, sparisce il suo sorriso, l’entusiasmo e le motivazioni. È un altro duro colpo. Dopo qualche tempo la voglia di cavalcare ritorna ma nel frattempo il maneggio chiude. Lei rimane nuovamente sola, senza amiche, senza nessuno.
«Vorrei tanto non essere vista come una diversamente abile – si sfoga Michela – ma come una ragazza che vuole solo essere felice, trovare persone che mi rispettano e mi accettano per come sono. Solo le amiche della mamma, che mi vogliono bene per come sono, trascorrono qualche ore fuori casa con me e mi portano in vacanza con loro».
Ora Michela è migliorata grazie all’aiuto di uno specialista, «Mi fa stare bene e camminare, adesso ho dei fisioterapisti che mi aiutano molto e mi seguono con affetto e amore. Ma ci sono voluti anni per trovare queste persone per me speciali che hanno capito che avevo bisogno di aiuto e che da sola non ce l’avrei mai fatta. Sia ben chiaro, non sono guarita, ma almeno la mia patologia non peggiora, è stabile».
Ora vorrebbe tornare a cavalcare nel ricordo di Moretta, la cavalla morta di cui si era innamorata, ma il maneggio a Predazzo è ormai chiuso.
Michela ha avuto una famiglia che l’ha sempre sostenuta e difesa aiutandola a raggiungere i suoi sogni. Una famiglia la cui vita non è stata facile. La mamma è riuscita a guarire da un brutto male, mentre il padre si è spento piano piano per colpa del morbo di alzheimer. «Fai sempre quello che ti fa stare bene – mi dicevano mamma e mio fratello – ora ho un sogno che vorrei realizzare, mi piacerebbe provare a fare paradressage»
Michela lavora presso il comune di Predazzo, si trovava bene fino all’arrivo dell’emergenza sanitaria. «Ora è tutto diverso, perchè mi fanno lavorare in smart working e quindi non posso stare in mezzo alle persone. Rimango sola a casa, non vedo nessuno e tutto è cambiato. Spero di poter tornare in presenza velocemente perché vorrei ricominciare la mia quotidianità».
«Di una cosa sono convinta – conclude – che il destino era segnato dalla nascita, non possiamo più tornare indietro e per questo dobbiamo guardare al futuro andando avanti a testa alta, senza rimpianti e con la consapevolezza di dover affrontare ancora tante difficile prove. Non mi sono mai arresa perché sono una ragazza che non molla alle prime difficoltà».
In bocca al lupo guerriera e che tu possa raggiungere i tuoi sogni e obiettivi.
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