Arte e Cultura
Uscita la terza edizione di «Scienziati in tonaca.Da Copernico, padre dell’eliocentrismo, a Lemaître, padre del Big Bang»

E’ uscita in questi giorni la terza edizione di «Scienziati in tonaca. Da Copernico, padre dell’eliocentrismo, a Lemaître, padre del Big Bang» (clicca qui per vederlo e acquistarlo) di Francesco Agnoli ed Andrea Bartelloni.
Si tratta di una galleria di ritratti di grandi scienziati che sono stati anche sacerdoti, tra cui anche il trentino Giacomo Bresadola.
In appendice il libro contiene tre interviste a sacerdoti scienziati di oggi: il matematico Alberto Strumia, l’astronomo Giuseppe Tanzella Nitti e il fisico nucleare Stefano Visintin, monaco benedettino presso il monastero di Praglia.
Riportiamo nel merito l’ultima parte dell’intervista a quest’ultimo.
[…]
Poi arriva un essere minuscolo, un virus, il Covid-19, e tutte le certezze si sgretolano e si torna alle cure del ‘600: quarantena, distanziamento, igiene personale…. cadono le certezze. Cosa resta?
Resta la situazione come è sempre stata in realtà e non come ci eravamo convinti che fosse. L’uomo è un essere fragile, questa è la realtà. Le sue capacità intellettive e volitive, le sue capacità simboliche che gli permettono di costruire un mondo culturale che si emancipa dalla natura, non eliminano il fatto che egli è e rimane fragile. Basta un virus, un batterio, un incidente, un atto di violenza… per mettere fine alla sua esistenza.
La realtà della nostra fragilità l’avevamo scordata soprattutto noi occidentali. Pensavamo che oramai le nostre capacità tecnico-scientifiche ci avessero messo al sicuro da situazioni come quella che stiamo vivendo. Pensavamo che questi problemi riguardassero zone del mondo scientificamente e tecnologicamente arretrate. Noi potevamo stare tranquilli e continuare tranquillamente la nostra esistenza tra economia e godimento, anche giusto, dei beni terreni.
Da questa prospettiva, la situazione attuale è un bagno di realismo. Ci fa capire che certamente la scienza e la tecnica possono molto e potranno ancora di più, ma non hanno quelle capacità miracolose che tende loro ad attribuire chi le dipinge, in modo mitico e pseudoreligioso, come la salvezza dell’umanità e del mondo.
Per quanto riguarda noi e la nostra interiorità, questa situazione ci spinge, anche se certamente non ci obbliga, ad andare più in profondità e a porci domande su noi stessi, sulla vita e sul mondo. E magari a giungere fino al punto di vedere che l’uomo non trova in se àncora di salvezza; di capire che noi siamo sicuramente “spirito”, ma non uno “spirito assoluto”, in quanto esistiamo e siamo quello che siamo in quanto fondati sullo Spirito di Dio. E solo appoggiandoci a questo Spirito troveremo salvezza.
L” uomo è ancora anima, corpo e spirito o solo un computer con software e hardware? Ferma restando l’utilità delle macchine, corriamo oggi il rischio di meccanizzarci?
Il computer è sicuramente l’artefatto tecnologico che contraddistingue la nostra epoca ed è quindi normale che partendo da esso si cerchi di spiegare il mondo e noi stessi. Precedentemente era l’orologio quell’artefatto tecnologico che dava spunti per leggere il mondo in modo meccanicistico.
Partendo dal computer si vede l’uomo come un insieme di informazioni contenute in un corpo, come il software in un hardware. La vita diviene solo raccolta, conservazione ed elaborazione di informazioni. In questa nuova visione dualista dell’uomo, il corpo viene svalutato e non viene visto come il corpo di una persona, come un corpo personale, come unità psicosomatica, come spirito incarnato, secondo quanto proposto dalle antropologie di tipo personalista. Il corpo, per un pensiero come quello transumanista odierno, è un contenitore di informazioni mal fatto, in quanto soggetto a malattia e morte, che va al più presto migliorato con la tecnologia in una nuova versione 2.0 e poi ulteriormente trasformato in una realtà tecnologica che ci assicuri l’immortalità. Questa visione e queste prospettive hanno un che di mitico che evidenziano il profondo disagio di vivere con la realtà della nostra fragilità e prefigurano scenari in cui il ruolo della scienza e della tecnica viene elevato al ruolo di salvatore dell’umanità.
Ma il risultato così agognato è veramente umano? Inanzitutto l’uomo non solo raccoglie, conserva ed elabora informazioni, ma anche crea simboli, comprende significati e valori. L’uomo poi sente dolore, piacere, gioia, amore, odio… è cosciente di tutto questo e di sé. É cosciente anche della insoddisfazione per tutto ciò che è limitato, finito, contingente in quanto il suo spirito è “toccato” dallo Spirito creatore che è infinito, necessario e un bene illimitato. Questo confronto tra due estremi lo rende un essere della trascendenza, e per la trascendenza, per il quale ogni traguardo è solo un nuovo punto di partenza. Per quanto riguarda la “materia”, questa è in realtà molto “immateriale”, già per la fisica. Essa nella sua dimensione ultima viene vista attualmente come un campo di massa, energia ed informazione, dato che le particelle che costituiscono la materia sono “forme” di energia quantistica, eccitazioni di invisibili campi quantistici. Questa “informazione” e la successiva “organizzazione” sono un qualcosa di “spirituale” e non di “materiale”; sono “idee”, “forme” nel linguaggio filosofico classico; sono “logos” e “spirito” nel linguaggio religioso cristiano.
In definitiva il corpo è più di un “contenitore” da buttare e il tutt’uno che è la persona umana non è riducibile ad un computer o al suo software.
Il pensare però che lo sia non è un’idea priva di conseguenze. Il pericolo è infatti quello di pensarci, di immaginarci, di disegnarci e, alla fine, di rispecchiare fedelmente questo modello digitale di uomo che noi stessi abbiamo posto a modello. Per cui, p. es., l’amicizia è solo l’amicizia dei social networks e pensare è solo elaborare dei dati non sapendo più cos’è “il bello”, cos’è “il buono”, cos’è “il giusto”, cos’è “il virtuoso”, cos’è “il santo”, cos’è “il vero”: il nostro pensiero, le nostre emozioni, le nostre sensazioni, le nostre relazioni, la nostra persona vengono ridotti al loro modello digitale.
In questa prospettiva potremmo giungere ad essere contenti di constatare che ormai le macchine siano giunte al nostro livello, mentre in realtà saremmo stati noi ad abbassarci al loro livello, degradando il concetto di persona affinché la nostra illusione di essere un computer possa per noi funzionare. Il problema è che il solo vivere in questo ambiente “virtualizzato” in cui ci pensiamo macchine ci modifica, in quanto l’ambiente culturale in cui siamo immersi ci forma e ci trasforma molto più velocemente dei cambiamenti genetici. Questo pericolo “culturale” risulta poi aggravato dal fatto che questo processo di digitalizzazione dell’esistenza che ci porta a conformarci a quei modelli digitali di vita e di umanità che noi stessi abbiamo posto avviene con portata globale e con conseguente potenziale perdita di salutare diversità. In questo modo questo processo di “astrazione” e di digitalizzazione della vita è tanto più pericoloso in quanto verrebbero sul lungo termine a mancare le alternative pronte a prenderne il suo posto se esso divenisse fallimentare per l’umanità e per il pianeta.
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