Trento
Archeologia: quando può essere una prevenzione dalle catastrofi

In una società come quella odierna non possiamo fare a meno di constatare che le calamità naturali non stentano a palesarsi.
E non si parla solamente di pandemie che ci costringono a relazionarci come fossimo dei robot vedendoci solo tramite schermo dalle spalle in su, ma di una serie molto più ampia di catastrofi quali: terremoti, frane, alluvioni, e così via.
In quest’ottica, oltre a geologi e sismologi, può essere utile ed interessante tenere presente anche gli studi archeologici.
“Le cesure conseguenti ad eventi catastrofici si producono con modalità rapide e traumatiche che lasciano tracce inequivocabili nelle stratigrafie” affermano gli archeologi Nicola Degasperi e Michele Bassetti nel loro articolo Qual è quella ruina… pubblicato sulla rivista Archeologia delle Alpi. Segni chiari, indelebili, di quelle che sono state rovine passate e ormai dimenticate ma non per questo che non si verificheranno mai più. “Tutti coloro che dimenticano il loro passato sono condannati a riviverlo” conosciamo tutti questa celebre frase di Primo Levi, dopotutto.
Per fare un esempio: nel sito archeologico di Roncone loc. Fontanedo studiato dall’Ufficio beni archeologici della Provincia autonoma di Trento, è stato rinvenuto un edificio con pianta a L investito e sfondato da un grande masso di gneiss con un diametro di circa un metro e sessanta che, franato dal versante soprastante, è riuscito a penetrare all’interno dello stabile. Stiamo parlando di un insediamento avvenuto tra la prima e la seconda età del Ferro.
Facendo un salto nel tempo, per la precisione nel gennaio 2014, in località Ronchi di Termeno (BZ), una frana ha ricostruito la dinamica sopracitata con una tale precisione da risultare ironica: un grande masso ha colpito e danneggiato un maso sede di una moderna azienda agricola. Da notare, oltretutto, che lì vicino erano presenti tracce di una precedente frana, segno che questi avvenimenti si verificano con una certa ciclicità.
Bassetti e Degasperi concludono: “Lo studio delle catastrofi naturali riconoscibili a livello archeologico, nel porre l’accento sul rapporto che intercorre tra le comunità umane e il territorio insediato, inevitabilmente finisce con l’interrogare il presente con gli attuali problemi di tutela ambientale, di pianificazione e regolamentazione dei processi insediativi. Da ciò deriva l’utilità del confronto tra gli eventi calamitosi del passato e quelli attuali: i primi sepolti, racchiusi nelle stratigrafie, gli altri tratti dalla cronaca. La loro sconcertante somiglianza discende dalle modalità con cui si sprigionano le catastrofi naturali mentre è quasi del tutto ininfluente ciò che in effetti è cambiato: i materiali e le tecniche di costruzione”.
Molti altri esempi sarebbero possibili, spaziando dalle alluvioni ai terremoti; credo però che il punto fondamentale sia sottolineare le enormi conoscenze dell’essere umano e quanto si potrebbe evitare tenendo conto di questo genere di studi.
Troppo spesso si crede che ormai l’uomo sia arrivato a delle costruzioni invincibili a qualsiasi calamità naturale, ma chiaramente non è così. La natura continuerà a riprendersi i propri spazi, e invece che continuare a combatterla dovremmo imparare a conviverci restando in equilibrio con essa.
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