Spettacolo
Il prezzo di una vita? Secondo Miller vale 1.100 dollari

Dopo il folgorante L’uomo dal fiore in bocca, Gabriele Lavia passa il testimone alla Compagnia Umberto Orsini, che porterà in scena al Teatro Sociale di Trento da giovedì 9 a domenica 12 una rara piéce di Arthur Miller, Il prezzo, che vede la regia di Massimo Popolizio.
Una commedia a quattro voci, a tratti divertente e caustica, a tratti drammatica; una storia dove tutto ha un prezzo: non solamente i beni materiali, ma anche – e soprattutto – le scelte, i ricordi, gli errori, così come le vittorie e le sconfitte.
«Ho accolto con grande entusiasmo la responsabilità di dirigere questa commedia – scrive Massimo Popolizio nelle note di regia – che è stata scritta nel 1968 e che in Italia è praticamente inedita. È un’opera a mio avviso molto importante [..] perché riprende argomenti cari a Miller e ad altri autori americani della seconda metà del Novecento, che hanno focalizzato sul tema della famiglia e del disagio legato a mutamenti storico-economici il loro interesse più appassionato».
Il prezzo è infatti una commedia costruita per quattro caratteri che spiccano per consistenza e spessore, quattro tipi-ideali emblematici di una società che non è solo americana, ma nella quale oggi più che mai ognuno di noi può riconoscersi e interrogarsi.
A distanza di sedici anni dalla morte del padre, un uomo che ha vissuto sulla propria pelle le drammatiche conseguenze della crisi del ’29, i due figli Victor e Walter si ritrovano per sgomberare in fretta e furia l’appartamento di proprietà paterna prima che l’edificio intero venga demolito. Dall’arpa al tavolo di legno massiccio, dalla poltrona tappezzata fino al più piccolo suppellettile: tutto ciò che il padre ha accumulato nel corso della sua vita dev’essere venduto, e in tempi rapidi. Sarà proprio la trattativa sul prezzo al quale liquidare i beni paterni la spinosa questione attorno alla quale graviterà l’intera vicenda, che farà inevitabilmente riaffiorare i vecchi rancori familiari.
Victor – rappresentato dal regista stesso Massimo Popolizio – si tormenta nel rimpianto di non aver seguito i suoi sogni per codardia. Costretto ad abbandonare gli studi universitari nei quali brillava per arruolarsi in polizia ed assistere così il padre, un facoltoso uomo d’affari caduto in rovina dopo la crisi del ’29, egli è l’archetipo dell’uomo umile e di poche pretese e per questo preda della moglie dispotica Esther (Alvia Reale).
La vigliaccheria e la mediocrità di Victor non fanno che rendere ancora più mordace l’arrivismo e il desiderio di ascesa sociale ed economica del fratello Walter (Elia Schilton) il quale invece dopo il 29’ non si fece tanti scrupoli di fronte alla rovina del padre e, indifferente al giogo della responsabilità, se ne andò di casa per intraprendere la carriera di chirurgo. A distanza di molti anni, Walter sa di essere parzialmente in debito con il fratello ma si rifiuta di giocare la parte del capro espiatorio: per questo si offrirà di liberarlo dalle ristrettezze economiche solamente a patto di un suo cedimento morale.
A godere di questo massacro fraterno, tra beghe familiari, rancori, e menzogne sarà il vecchio antiquario Solomon, interpretato da un sorprendente Umberto Orsini, che si farà beffa dei due riuscendo ad acquistare tutto il mobilio ad un prezzo stracciato, perché tanto “coi mobili usati non si può essere sentimentali”. In questo senso è emblematica la scelta di chiudere la rappresentazione con un suo balletto finale a celebrazione dell’ultimo colpo grosso della sua vita. E mentre l’anziano Solomon si lascerà trasportare dalla nostalgica melodia del grammofono, fuori continueranno a ruggire i boati di un progresso che inesorabile, demolisce per poi ricostruire il nuovo.
Sono personaggi tragicamente soli quelli che si muovono in una scenografia domestica ridotta all’essenziale dove, tra la canasta di mobili in un equilibrio precario, spicca la poltrona del grande assente – il padre – motore immobile di tutto il dramma. Sono fratelli il cui legame di sangue si svuota del suo significato in una vita vacua e accecata dal luccichio del denaro, dove non c’è spazio nemmeno per l’affetto parentale.
Lo spettacolo, in calendario per la rassegna Grande Prosa del Centro Servizi Culturali Santa Chiara andrà in scena al Teatro Sociale nei giorni giovedì marzo, venerdì 10 e sabato 11 alle ore 20.30. La domenica invece, la recita è fissata in orario pomeridiano, alle 16.00.
Come di consueto, la rappresentazione de L’avaro sarà accompagnata nel pomeriggio di venerdì 10 marzo alle ore 17.30 presso lo Spazio Ridotto del Teatro Sociale, dal «Foyer della prosa», incontro di approfondimento critico che il Centro Servizi Culturali S. Chiara propone in collaborazione con il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento. Alla discussione saranno presenti anche gli interpreti.
a cura di Arianna Conci
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