Italia ed estero
Donald Trump, il presidente «amico di Israele»

Il passaggio di consegne tra Barack Obama e Donald Trump, tra meno di due settimane, potrebbe segnare l’inizio di una nuova luna di miele nelle relazioni tra Stati Uniti e Israele.
Il condizionale è d’obbligo, perché sulla questione dei rapporti con Israele, come su tante altre questioni, Donald Trump ha manifestato un discreto grado di imprevedibilità.
Nella prima fase della sua corsa per la Casa Bianca, infatti, l’allora candidato repubblicano si disse favorevole a una politica imparziale nei confronti di Israele, promettendo di comportarsi da onesto intermediario nei negoziati tra israeliani e palestinesi. Una posizione distante dal tradizionale sostegno incondizionato a Israele che ha caratterizzato negli anni la linea del Partito Repubblicano.
Una volta vinte le elezioni, però, Donald Trump ha lanciato una raffica di messaggi d’amore all’attuale amministrazione israeliana, guidata da Benjamin Netanyahu, il secondo primo ministro più longevo nella storia di Israele.
Per cominciare, il presidente eletto ha nominato ambasciatore in Israele David Friedman, avvocato specializzato in fallimenti, figlio di un rabbino di Long Island e suo consigliere senior per gli affari con Israele durante la campagna elettorale. Friedman, che peraltro è privo di esperienza diplomatica, si è fatto notare già in campagna elettorale per una serie di uscite in linea con le posizioni degli elementi più estremi della destra israeliana al potere.
Ad esempio, ha detto di considerare legali gli insediamenti israeliani in Cisgiordania – posizione opposta a quella della comunità internazionale e alla linea adottata dalla Casa Bianca dal 1967 – anno di inizio dell’occupazione – ad oggi. A tal proposito, Friedman ha anche dichiarato che Trump sosterrebbe l’annessione israeliana di parti della Cisgiordania e ha bollato gli ebrei che appoggiano la soluzione dei due stati – uno israeliano e uno palestinese – “peggio dei kapò”.
La prima dichiarazione del futuro ambasciatore, poi, ha fatto gelare il sangue ai sostenitori del processo di pace israelo-palestinese. Dopo la nomina di Trump, Friedman ha dichiarato di non vedere l’ora di lavorare “all’ambasciata Usa nella capitale eterna di Israele, Gerusalemme”. Una dichiarazione che rischia di mandare a gambe all’aria il processo di pace e far esplodere il conflitto nella regione, dato che anche i palestinesi reclamano Gerusalemme come la capitale del loro stato. Va comunque ricordato che anche Clinton e Bush avevano fatto la stessa promessa, senza però poi riuscire a mantenerla.
La scelta di Friedman non è l’unica a gettare ombra sul futuro della regione. A tal proposito, anche la nomina di Jason Greenblatt a rappresentante speciale per i negoziati internazionali ha destato alcune perplessità tra gli addetti ai lavori. Greenblatt, avvocato specializzato in questioni immobiliari, ha pochissima esperienza di diplomazia internazionale e, come Friedman, sostiene a spada tratta la costruzione di nuovi insediamenti da parte di Israele in Cisgiordania. “Trump non crede certamente che gli insediamenti dovrebbero essere condannati e che siano un ostacolo per la pace, perché non sono un ostacolo per la pace”, ha dichiarato Greenblatt.
Ma il bacio mortale con cui Trump si è avvinghiato prematuramente a Israele, ancor prima di assumere le funzioni di presidente, è un altro e, cioè, la sceneggiata con cui ha tentato di bloccare la storica risoluzione delle Nazioni Unite di fine anno che ha denunciato la costruzione di nuovi insediamenti ebraici in Cisgiordania, perché considerati un ostacolo alla pace. Risoluzione che il presidente eletto ha prima tentato di bloccare – facendo pressione sul presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi – e, poi, una volta approvata, ha attaccato duramente, dichiarando che le Nazioni Unite si sarebbero ridotte a un “club dove fare chiacchiere e divertirsi”.
L’attaccamento di Trump alla causa di Israele è, in realtà, anche e forse, soprattutto, un affare di famiglia. Come dimenticare che la figlia, Ivanka, si è convertita all’ebraismo sposando l’impresario Jared Kushner, ebreo ortodosso che pratica con rigore la sua fede e che è uno dei consiglieri chiave del neo-eletto presidente?
L’incondizionato sostegno di Trump, se si tradurrà dalle parole ai fatti, rischia però, paradossalmente, di trascinare Israele in un baratro. Sicura del sostegno americano, la destra israeliana, ormai a briglia sciolta e prigioniera dai suoi elementi più estremisti, si sentirà ancora più legittimata a portare avanti quello che il resto del mondo considera un vero e propio apartheid. E così farà terra bruciata intorno a sé, trasformando una realtà (ancora) democratica in uno stato canaglia.
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