Italia ed estero
E se alla Brexit gli inglesi dicessero realmente sì?
“Brexit” deriva dalla fusione delle parole “Britain” e “exit” e si riferisce alla possibile uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea.

“Brexit” deriva dalla fusione delle parole “Britain” e “exit” e si riferisce alla possibile uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea.
Da settimane, è questo il tema più dibattuto non solo dalla stampa britannica. Sarà il 23 giungo 2016 la giornata in cui la popolazione inglese prenderà una decisione fondamentale per il futuro della propria nazione: restare o abbandonare l’Unione Europea.
Certo, non si tratta di una questione dalle semplici sfumature, né di un momento storico privo di tensioni e di spaccature all’interno del governo. David Cameron, il quale, vedendo approvate le riforme da lui avanzate, è ora uno dei principali portavoce della “In campain”, ha infatti recentemente ridicolizzato il sindaco di Londra, Boris Johnson, che si è schierato al fianco di Michael Gove, dando testa al Primo ministro.
Iain Duncan Smith, il Segretario di Stato per il lavoro, ha invece lanciato diverse accuse contro la scarsa fiducia nutrita sempre da Cameron nei confronti del potenziale britannico, ritenuto da egli incapace di affrontare le minacce che si verrebbero a creare in caso di un’uscita definitiva. Secondo il parere di Duncan Smith, è sbagliato dimenticare che l’Inghilterra, già detentrice di uno statuto speciale all’interno dell’Unione, riveste tutt’oggi il ruolo di una delle maggiori potenze al mondo, capace di rialzarsi e di riprendere il cammino di fronte a qualsiasi tipo di cambiamento. Si potrebbero aprire nuove avvincenti strade, quale l’adesione all’“European Single Market” e un incremento della protezione di fronte alla minaccia terrorista.
Per far fronte all’incertezza che caratterizza il domani dell’Inghilterra, sono state sviluppate diverse previsioni nel caso di una reale Brexit. Nonostante alcuni orizzonti positivi, gli economisti rimangono scettici, fermi sulla convinzione che gli scambi commerciali con le potenze europee andrebbero a deteriorarsi, influenzando negativamente gli investimenti esteri e quindi il livello di competitività e di progresso. Vari scenari sono stati proposti, affinché la paura di un salto nel vuoto possa essere esorcizzata.
Una possibilità vede un Regno Unito in crescita, sia dal punto di vista economico che sociale. In questo caso, le politiche immigratorie non dovrebbero minare la libertà di movimento dei membri dell’Unione Europea, i soldi risparmiati dalle imposte dell’Unione dovrebbero venire investiti nel settore pubblico, il libero commercio dovrebbe trionfare e nuovi rapporti commerciali dovrebbero instituirsi senza dimenticare che il mercato unico europeo continua ad essere il principale partner economico dell’Inghilterra.
Un’altra ipotesi gettonata si basa sul presupposto di avere a che fare con un’Inghilterra debole, che senza il sostegno europeo sarebbe pronta ad affondare. Limitando il numero di immigrati, la libertà di movimento e gli accordi commerciali, si andrebbe di conseguenza a sbattere contro un’onda di depressione economica e finanziaria, che porterebbe ad una riduzione di consumi e di investimenti esteri. Le soluzioni implicherebbero un drastico aumento delle imposte o un taglio alle spese pubbliche, tutti fattori che minerebbero agli standard di vita dei singoli cittadini.
Una via di mezzo è rappresentata da una visione meno distopica ma più ottimista. Il Regno Unito, dopo una prima fase di instabilità e di incertezza che causerebbero un freno agli investimenti e alla produttività, non incontrerebbe né troppi vantaggi né troppe minacce al di fuori dell’Unione, facendo sì che il prestigio britannico rimanga intatto. La lacerazione di alcune relazioni con i membri dell’Unione verrebbe compensata da nuovi partner economici, come il Brasile, la Cina e l’India. Tutto starà nell’abilità di virare verso gli accordi più redditizi, cercando di focalizzarsi sull’importazione di prodotti di qualità.
Indipendentemente da queste anticipazioni, un cambiamento, seppure temporaneo, sembra essere inevitabile. Il campo della ricerca scientifica, largamente sostenuto dai fondi europei, ne risentirebbe molto, dal momento che il 3,3% dei ricercatori operano in terra inglese e molti di loro sono stranieri.
L’agricoltura e i progetti ecologici dovrebbero rinunciare a numerosi sussidi elargiti dalla “Common Agricultural Policy”. Inoltre, l’Inghilterra verrebbe esonerata dal privilegio che dovrebbe concretizzarsi entro il 2017, secondo il quale in Europa, al di fuori del proprio paese, sarà possibile utilizzare la telefonia mobile senza costi aggiuntivi. Per non parlare dei circa due milioni di inglesi espatriati in altri stati europei, che dovrebbero rinunciare a molte agevolazioni in materia di sanità e di pensioni di cui godono oggi. Anche i programmi di studio ne soffrirebbero, come ad esempio il progetto Erasmus, patrocinato e finanziato dall’Unione.
Lungi dall’adottare una linea semplicista, la “Leave campain” fatica ad accorgersi degli effettivi rischi che la potenza britannica potrebbe incontrare. Infatti, risulta difficile credere che la City possa comunque restare il maggior centro finanziario dell’Europa, grazie al quale sono maturati circa un milione di posti di impiego. E se fosse invece la Gran Bretagna ad aver bisogno dell’Europa?
E le perplessità non smettono di accrescere, mettendo a repentaglio le fondamenta della Brexit e la validità dei modelli di mercato dell’”European Economic Area” (EEA) e del “Free Trade Agreement” (FTA), lasciando che sia il Regno Unito a decidere per il proprio futuro e per un possibile nuovo assetto dell’Unione Europea.
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