Italia ed estero
L’arte di perdere: 3 storie d’oltremanica per la classe politica italiana
Guai ai vinti, dicevano gli antichi romani, perché la storia la scrivono i vincitori. Lo sanno bene Ed Miliband, Nick Clegg e Nigel Farage, messi al tappeto da David Cameron, che, dopo le elezioni di giovedì scorso, è riuscito a conservare la carica di primo ministro britannico.

Guai ai vinti, dicevano gli antichi romani, perché la storia la scrivono i vincitori. Lo sanno bene Ed Miliband, Nick Clegg e Nigel Farage, messi al tappeto da David Cameron, che, dopo le elezioni di giovedì scorso, è riuscito a conservare la carica di primo ministro britannico.
La vittoria del leader conservatore è stata schiacciante: il suo partito ha ottenuto 331 seggi sui 650 totali della Camera dei Comuni. Un numero addirittura superiore a quello che serviva per conquistare la maggioranza assoluta.
Il grande sconfitto è Ed Miliband, leader del partito laburista e unico vero avversario di Cameron per la poltrona di primo ministro. “Questo non è il discorso che avrei voluto pronunciare”, confessa Miliband nella sala gremita di giornalisti. È venerdì, ora di pranzo, e per il giovane leader è giunto il momento di dire addio al sogno di una vita.
Figlio di una coppia di ebrei polacchi trasferiti in Inghilterra, Miliband si iscrisse al Partito laburista all’età di quindici anni. Crebbe politicamente all’ombra dell’ex-cancelliere dello Scacchiere e primo ministro britannico, Gordon Brown, per il quale fu prima collaboratore e speechwriter e poi ministro dell’Energia, incarico che ricoprì tra il 2008 e il 2010. Erede designato di Brown, Miliband ne prese il posto alla guida del partito nel 2010, dopo la sconfitta dei laburisti alle elezioni politiche. In questa occasione, nella corsa per diventare segretario del partito, Ed superò proprio il fratello David, già ministro con Tony Blair e altro astro nascente del Labour.
“Ed il rosso”, soprannominato così per il sostegno di cui godeva tra i sindacati e per la sua volontà di rompere con “l’eccessivo liberismo” di Tony Blair, ha perso in maniera umiliante: il Labour ha conquistato 232 seggi, 26 in meno che nella passata legislatura. “Mi assumo tutta la responsabilità della sconfitta”, ha dichiarato Miliband, prima di abbandonare formalmente la guida del partito, riconoscendo che “la Gran Bretagna ha bisogno di un partito laburista forte ed è il momento che qualcun altro assuma la sua leadership”.
Molto ha influito sul risultato finale l’exploit dei nazionalisti scozzesi, con i quali Miliband ha rifiutato di scendere a patti fino all’ultimo. Forse, anche perché intimoriti da quello che si presentava come uno scenario politico estremamente incerto, gli inglesi hanno votato in massa per David Cameron, il male minore.
Brutta batosta anche per Nick Clegg, candidato dei liberal-democratici: il suo partito ha conquistato solo otto seggi, una cifra di sette volte inferiore rispetto alle precedenti legislative, nonché il peggior risultato negli ultimi ventisette anni. Questo era il prezzo da pagare per cinque anni al governo insieme ai conservatori di David Cameron.
Dopo aver parlato davanti alla dirigenza del partito, Clegg è stato visto andarsene con le lacrime agli occhi. “Ha perso il liberalismo ‒ ha commentato Clegg prima di dimettersi dei Lib Dem ‒ che però è più prezioso che mai e per il quale dobbiamo continuare a lottare. Sarebbe facile immaginare che non si può più tornare indietro. Non è così. È un’ora molto buia per il nostro partito, ma non possiamo permettere e non permetteremo che i valori liberali evaporino con questa notte”.
Un addio che suona più come un arrivederci è, invece, quello di Nigel Farage, leader del partito indipendentista Ukip. Ricordando di aver promesso agli elettori che si sarebbe dimesso in caso di mancata conquista del seggio a South Thanet, l’uomo simbolo del partito anti-Ue e anti-immigrazione ha precisato che deciderà a settembre se tornare in campo per riprendere in mano le redini del partito.
L’uscita di scena di Miliband, Clegg e Farage priva il panorama politico britannico di tre dei suoi pezzi da novanta. Ma apre anche la scena a nuovi protagonisti, in grado di infondere speranza e coraggio a dei partiti in profonda crisi di identità. Probabilmente i tre leader finiranno nel dimenticatoio della storia. Non conta. L’importante è che abbiano avuto il buon senso di farsi da parte, per consentire alla dirigenza dei loro partiti di rinnovarsi. Un gesto che lascia probabilmente sbigottiti molti dei politici nostrani, gelosamente affezionati alle loro poltrone.
In Inghilterra, i due maggiori partiti, quello conservatore e quello laburista, esistono da più di cent’anni. In Italia, invece, i nostri leader sono soliti sopravvivere ai loro partiti, che cambiano nome e organizzazione in base alle mode del momento, ma che in realtà non sono altro che vuoti contenitori di plastica. Da riciclare.
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