Italia ed estero
Yemen: la guerra dei droni ha fallito
Martoriato dal terrorismo e dalla guerra civile, lo Yemen è diventato il simbolo del fallimento della “politica dei droni” del presidente americano Barack Obama.

Martoriato dal terrorismo e dalla guerra civile, lo Yemen è diventato il simbolo del fallimento della “politica dei droni” del presidente americano Barack Obama.
Sembra lontano anni luce il discorso di Obama alla nazione dello scorso 10 settembre, in cui il presidente americano, parlando della guerra all’Isis, citava lo Yemen e la Somalia come i due paesi in cui la strategia statunitense di lotta al terrorismo aveva avuto successo. Una strategia che ha sostituito l’impiego del personale militare con attacchi aerei attraverso i droni.
I droni sono piccoli aeromobili controllati a distanza da un pilota. Dopo l’11 settembre e l’avvio della guerra al terrorismo internazionale, sono diventati l’arma preferita degli Stati Uniti per combattere in terra nemica.
I droni presentano una serie di vantaggi rispetto al dispiegamento di personale militare. Armati di missili letali, questi aeromobili possono librarsi per ore sopra i potenziali bersagli in attesa del momento più opportuno per colpire. Non mettono in pericolo la vita dei soldati americani, che siedono al sicuro nei loro centri di controllo a migliaia di chilometri di distanza, e permettono di uccidere i sospetti terroristi con relativa precisione.
Lo Yemen è stato uno dei paesi in cui gli Stati Uniti hanno fatto maggiormente ricorso ai droni per eliminare i militanti di Al Qaeda. In cambio del permesso di entrare lo spazio aereo yemenita e colpire i bersagli individuati, il governo americano ha supportato i regimi del presidente Ali Abdullah Saleh e del suo successore, Abdu Rabbu Mansour Hadi.
I dittatori yemeniti non si sono limitati a dare agli statunitensi il via libera per effettuare i loro “attacchi di precisione”. Più volte, Saleh e Hadi hanno coperto gli errori dei droni americani che hanno provocato la morte di civili innocenti, arrivando anche a imprigionare i giornalisti yemeniti che osavano parlare dell’accaduto.
Gli errori dei velivoli americani sono stati numerosi. Ad esempio, nel 2009 una di queste “operazioni chirurgiche” ha provocato la morte di 35 donne e bambini. O ancora, nel 2014, sono stati 12 i partecipanti a un matrimonio rimasti vittime di questo tipo di attacco.
Particolarmente toccante è la storia di Mohammed Tuaiman, un tredicenne yemenita che lo scorso settembre aveva dichiarato al Guardian di “vivere nella paura costante delle ‘macchine della morte’ che si librano nei cieli e che hanno già ucciso suo padre e suo fratello” nel 2011, mentre si stavano occupando dei cammelli della famiglia. In febbraio, Mohammed è stato ucciso da un drone.
Non c’è da stupirsi che i ribelli sciiti Houthi, autori di un colpo di stato in gennaio che ha consentito loro di prendere il controllo della maggior parte del paese, abbiano uno slogan che recita “Morte all’America, ad Israele, e dannazione agli ebrei”. Dopo questi eventi, il Dipartimento di Stato statunitense ha pensato bene di confermare la chiusura dell’ambasciata americana nel paese.
Forse i responsabili della politica estera americana oggi si pentono di non aver ascoltato abbastanza le parole di Nabeel Khoury, capo missione in Yemen per il Dipartimento di Stato statunitense tra il 2004 e il 2007. Nel 2013, in un articolo pubblicato sulla rivista The Cairo Review of Global Affairs, Khoury dichiarò: “Gli attacchi dei droni eliminano di sicuro qualche terrorista ma uccidono anche un gran numero di civili innocenti. Considerata la struttura tribale della popolazione yemenita, con questa strategia gli Stati Uniti generano tra 40 e 60 nuovi nemici per ogni vero militante di Al Qaeda eliminato”.
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