Italia ed estero
Con Freedom Food Alliance per combattere contro la discriminazione razziale
Qualche mese fa la discriminazione verso i neri d’America è tristemente tornata a far parlare di sè.

Qualche mese fa la discriminazione verso i neri d’America è tristemente tornata a far parlare di sè.
Abbiamo tutti seguito le vicende legate alle reazioni della polizia e alle pesanti conseguenze che hanno scatenato. Abbiamo immaginato strade cittadine poco illuminate, pistole nascoste sotto giubbotti e paesaggi del Bronx. Non ci siamo accorti che per sradicare la discriminazione all’interno del sistema americano, si può invece partire dall’agricoltura.
“I più grandi assassini dei neri d’America oggi non sono pistole o violenza, ma una dieta che porta alle malattie, come quelle cardiache, il cancro, l’infarto e il diabete. Questi disturbi colpiscono di più le minoranze, rispetto ai bianchi, in parte per via di un sistema alimentare che è “broken” e che consente solo ad alcune fette della popolazione di avere accesso a cibo sano, favorendo invece la diffusione del cibo di bassa qualità per tutti gli altri.” A dirlo è la rivista Yes! Magazine in un lungo articolo-reportage che oltre al problema presenta la possibile soluzione: Freedom Food Alliance.
Il progetto Freedom Food Alliance prende il via nel 2009 e coinvolge piccoli contadini (rurali ed urbani), prigionieri politici, artisti ed altri attivisti che credono nel ruolo della food justice per combattere il razzismo presente nel sistema della criminal justice. Insomma, dalla terra alla tavola per evitare la cella. Un esempio delle loro attvità? Il sistema di bus messo a disposizione dal New York State Department of Corrections per fare da navetta tra le famiglie ed i loro cari incarcerati è stato tagliato nel 2011, lasciando a piedi 2.120 passeggeri al mese. Jalal Sabur una delle menti alla base della FFA ha allora attivato un nuovo sistema: Sabur acquista i prodotti delle fattorie locali, li impacchetta e carica sul Victory Bus, poi passa a prendere le famiglie: chi decide di acquistare il cibo, riceve in cambio un passaggio gratuito per andare a visitare i propri cari in prigione. Per Sabur – che con lo slogan “Food-Power!” ha partecipato ad Occupy Wall Street – lo stesso tempo che si trascorre i viaggio non va sprecato e ne approfitta per stimolare il dibattito sul sistema detentivo e sull’idea di food justice.
Un altro progetto riguarda invece i giovani che stanno scontando una condanna e che spesso devono ripagare ciò che hanno danneggiato o rubato. In questo caso, entra in gioco la Soul Fire Farm che partecipa al Project Growth: i ragazzi imparano a coltivare la terra e in cambio non solo vengono pagati (in modo da rimborsare i debiti e spesso anche da mettere via qualche soldino), ma sono invitati a raccontare le proprie storie e a pensare al proprio futuro. Da questo dialogo è nata una lista di proposte rivolte alle autorità, per migliorare il sistema giudiziario e capire alla radice cosa c’è che non funziona.
Non si tratta di attività del tutto nuove: il movimento dei diritti civili vanta un lungo rapporto con la terra. Forse a noi oggi colpisce di più, proprio perché parlare di ritorno all’agricoltura fa tanto New Age. Come dice la Freedom Food Alliance: “Crediamo che sia importante ridurre il divario tra l’urbano ed il rurale, perché attraverso una forte unità regionale possiamo creare delle alternative sostenibili e far fronte alle ingiustizie nelle nostre comunità. Crediamo che la food sovereignty sia il modo migliore per noi per trasformare sul serio le ineguaglianze che vediamo nelle nostre comunità e per ottenere il controllo sul nostro cibo.”
Dalle attività di recupero, all’imparare un mestiere, sino all’attenzione volta all’aspetto sociale ed alimentare, ciò che ci capita nel piatto conta. Non rispecchia direttamente il colore della pelle e forse è anche meglio: aiuta, di fatto, a renderci tutti della stessa tinta propria dell’essere umano e del cittadino responsabile.
A cura di Sandra Simonetti –
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