Italia ed estero
Non una lacrima per re Abdullah dell’Arabia Saudita
È morto un tiranno. Abdullah Bin Abdulaziz, sesto re saudita, si è spento giovedì all'età di 91 anni. Salì al trono nel 2005 con la promessa di riformare l'ultraconservatrice società saudita. Nove anni dopo, poco o nulla è cambiato. Le donne sono prigioniere degli uomini, il numero delle decapitazioni fa invidia allo Stato islamico, la tolleranza verso le altre confessioni religiose è pressoché nulla, gay e blogger dissidenti sono condannati a mille frustate, quando gli va bene.

È morto un tiranno. Abdullah Bin Abdulaziz, sesto re saudita, si è spento giovedì all’età di 91 anni. Salì al trono nel 2005 con la promessa di riformare l’ultraconservatrice società saudita. Nove anni dopo, poco o nulla è cambiato. Le donne sono prigioniere degli uomini, il numero delle decapitazioni fa invidia allo Stato islamico, la tolleranza verso le altre confessioni religiose è pressoché nulla, gay e blogger dissidenti sono condannati a mille frustate, quando gli va bene.
Piangono i leader internazionali, o almeno, fanno finta. Il presidente americano Barack Obama ricorda il re saudita con un tweet: “In patria la sua visione era dedicata a educare la popolazione”. Il suo segretario di Stato, John Kerry, riesce a fare di meglio: “Il re Abdullah era un uomo di saggezza e visione. Gli Stati Uniti hanno perso un amico”. Sì, un amico che disprezzava tutte le libertà di cui l’America si fa portabandiera e che finanziava, neanche poi tanto segretamente, gli estremisti islamici di tutto il mondo.
Non piangono, invece, le donne saudite. Durante il regno di Abdullah, i miglioramenti della loro condizione non sono andati oltre qualche mossa puramente propagandistica. Il sistema dominante della “guardiania” è, infatti, ancora intatto. Questo prevede che le donne debbano ottenere il permesso di un guardiano per sposarsi, viaggiare nella maggior parte dei paesi, sottoporsi a determinati interventi chirurgici, intraprendere un lavoro pagato o iscriversi all’università. Solitamente, sono il marito, il padre, il fratello o il figlio ad assumere il ruolo di guardiano.
Nel 2005 Abdullah dichiarò: “Sono convinto che arriverà il giorno in cui le donne potranno finalmente guidare”. Quel giorno sembra ancora lontano. L’Arabia Saudita rimane l’unico paese al mondo in cui le donne non possono guidare. Se provano a violare il divieto, vengono arrestate.
Non piangono la morte di Abdullah neppure tutte le vittime della giustizia saudita. In questo paese, i giudici hanno pressoché potere di vita o di morte, grazie all’estrema discrezionalità garantita da un sistema privo di un codice penale scritto. Quest’anno, sono già undici coloro che sono stati ammazzati dal boia. L’anno scorso erano stati 87. Particolare scalpore ha destato la recente esecuzione di una donna birmana, accusata di abusi sessuali e omicidio della propria figliastra. Questa è stata trascinata per strada da quattro agenti della polizia e decapitata con una spada.
Non piangono neppure i membri delle confessioni religiose diverse dall’Islam. Per loro, vige il divieto di praticare pubblicamente la propria religione. Anche i musulmani sciiti, minoranza in un paese dominato dai sunniti, soffrono varie discriminazioni. Nel 2011 e nel 2012, gli sciiti protestarono appunto contro questo trattamento, ma la polizia rispose con la forza, arrestando numerose persone.
Tra coloro che non si disperano per la morte di re Abdullah ci sono poi i membri della comunità omosessuale. In Arabia Saudita, l’omosessualità è punibile con la morte. Lo scorso luglio, un ventiquattrenne è stato condannato a 450 frustate e tre anni di prigione, dopo aver scritto un tweet in cui raccontava di aver incontrato altri uomini.
Non piange per il re scomparso neanche Raif Badawi, blogger arrestato nel 2012 per aver pubblicato degli articoli in cui criticava la leadership religiosa del paese. Questo gli è costato una condanna a dieci anni di prigione e mille frustate. La vicenda di Badawi ha catturato l’attenzione internazionale, scatenando proteste a Berlino, in Germania, e spingendo Zeid Ra’ad al-Hussein, alto funzionario delle Nazioni Unite in tema di diritti umani a definire la condanna di Badawi “una forma crudele e inumana di punizione”.
La sfida per il successore di Abdullah, Salman Bin Abulaziz al-Saud, è enorme. Non sarà facile convincere il complesso apparato politico-istituzionale saudita a cambiare rotta e muoversi a passo spedito verso il rispetto delle libertà fondamentali. A tal riguardo, anche l’Occidente dovrà fare la sua parte, abbandonando la tradizionale accondiscendenza e condannando gli orrori compiuti all’ombra della Mecca.
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