Italia ed estero
Il terrorismo uccide il sogno palestinese
Non c'è fine alla violenza in Israele: all'alba, due attentatori arabi hanno fatto incursione in una sinagoga di Gerusalemme, uccidendo quattro fedeli e ferendone altre sette. Si tratta solo dell'ultimo di una serie di attacchi terroristici che hanno mandato il paese nel panico.

Non c’è fine alla violenza in Israele: all’alba, due attentatori arabi hanno fatto incursione in una sinagoga di Gerusalemme, uccidendo quattro fedeli e ferendone altre sette. Si tratta solo dell’ultimo di una serie di attacchi terroristici che hanno mandato il paese nel panico.
Non è difficile indovinare da dove provenga tutta questa rabbia. Quest’estate ben 2.100 palestinesi, di cui 500 bambini, sono morti ammazzati in una guerra senza senso. E intanto le autorità israeliane hanno continuato a espropriare indisturbate quel poco di terra che è rimasta ai palestinesi.
I recenti attacchi terroristici hanno però prodotto una radicalizzazione nella comunità ebraica: la paura ha indurito anche il cuore di coloro che fino ad ora si erano battuti per promuovere la convivenza pacifica tra le due nazioni, per realizzare la tanto agognata soluzione “due popoli, due stati”.
Il terrorismo danneggia infatti più i palestinesi che gli ebrei. Metterà pure in pericolo la vita di tanti ebrei, ma non può essere considerato una minaccia reale all’esistenza dello Stato di Israele.
È invece un reale ostacolo alla nascita dello stato palestinese. Infatti, se i palestinesi avessero abbandonato la violenza quando la maggior parte della comunità ebraica si mostrava disposta ad accogliere le loro richieste, oggi avrebbero probabilmente già il loro stato.
Ma hanno preferito abbandonarsi alla guida miope di una leadership divisa. Da un lato Hamas, con il suo continuo ricorso alla violenza, con il suo persistente rifiuto di riconoscere il diritto degli ebrei ad avere un proprio stato, ha distrutto la disponibilità della popolazione ebraica ad accettare una pace piena di rischi.
Dall’altro, Abu Mazen, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), ha tirato fuori dal cilindro la più deleteria delle tattiche a suo tempo perseguite dal Yasser Arafat, suo predecessore alla guida dell’ANP. In tal senso, Abu Mazen ha inserito la disputa tra ebrei e palestinesi nella cornice di una devastante guerra di religione globale. E ha invitato i musulmani di tutto il mondo a unirsi per “salvare Al-Aqsa”, la moschea di Gerusalemme che è divenuta il simbolo del desiderio dei palestinesi di riprendere il controllo sulla parte orientale della città.
Scontrandosi così con l’ostinata opposizione del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, a modificare lo status di Gerusalemme. Un Netanyahu che sono vent’anni che fa di tutto per ostacolare il compromesso che potrebbe portare alla nascita dello stato palestinese.
Netanyahu non è evidentemente Yitzhak Rabin e nel campo palestinese non si vede alcun Nelson Mandela. Il progetto della nascita di uno stato palestinese affianco a quello israeliano sta quindi affondando, trascinando con sé i due popoli, in un abisso di violenza e di morte.
Invertire rotta oggi pare molto difficile. Il problema è quello di sempre: gli ebrei odiano i palestinesi perché tentano di ammazzarli, i palestinesi odiano gli ebrei perché rubano loro la terra.
È perciò facile prevedere che, se la comunità palestinese non comincerà a interrogarsi sul prezzo della violenza, e quella ebraica a prendere le distanze dalle posizioni dei coloni, il “sogno” dello stato palestinese sarà destinato a rimanere tale.
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