Italia ed estero
Morire due volte: la tragedia degli orfani dell’Ebola
“Di tutte le malattie che ho conosciuto, la solitudine è la peggiore”. Rispose così Madre Teresa alla domanda: “Qual'è la peggiore malattia che ha conosciuto?”. Oggi, in Africa occidentale, sono migliaia i bambini condannati alla solitudine.

“Di tutte le malattie che ho conosciuto, la solitudine è la peggiore”. Rispose così Madre Teresa alla domanda: “Qual’è la peggiore malattia che ha conosciuto?”. Oggi, in Africa occidentale, sono migliaia i bambini condannati alla solitudine.
O meglio, condannati all’isolamento: il virus Ebola ha portato via i loro genitori, e amici e vicini hanno troppa paura di rimanere contagiati per prendersene cura. Secondo le stime dei volontari sul campo, il numero di morti a causa della febbre emorragica corrisponde all’incirca al numero dei bambini rimasti senza mamma e papà. Si parla addirittura di 5.000 orfani.
La paura del contagio è talmente alta che, nei piccoli paesi e villaggi, i vicini arrivano a respingere gli orfani che sopravvivono. Il tutto in contrasto con l’antica usanza africana di prendersi cura di coloro che perdono la loro famiglia.
A tal riguardo, UNICEF ha reso nota la storia di due ragazzi nigeriani, di 17 e 21 anni. La madre, un’infermiera, è morta di Ebola. Ora i due giovani non possono nemmeno tornare a casa, perché bollati come una minaccia pubblica. E quando uno dei due ha provato a recarsi in chiesa, è stato aggredito dalla folla, che lo accusava di voler diffondere il virus.
Per i più piccoli, la situazione è addirittura peggiore. Incapaci di provvedere a sé stessi, spesso sono cacciati addirittura dai famigliari, troppo preoccupati di contrarre la malattia. E poco importa se gli orfani sono risultati negativi ai test per il virus.
E le cose non possono che peggiorare. L’Organizzazione Mondiale per la Sanità ha infatti previsto che, nei prossimi mesi, i casi giornalieri di persone che verranno infettate dal virus Ebola saliranno a 10.000 alla settimana.
Con un tasso di mortalità al 70%, un numero sempre maggiore di bambini perderà la sua famiglia e rischierà l’esclusione sociale.
“Questi bambini appartengono solitamente alle famiglie più povere e dopo la morte dei genitori rimangono letteralmente senza niente. La loro famiglia è stata sterminata dal virus. Le loro case e i loro averi sono stati bruciati per la paura del contagio. E soprattutto: la gente ha paura di loro”, racconta Tom Dannat, dell’organizzazione benefica Street Child.
Missione di Street Child, come di altre organizzazioni benefiche impegnate a fronteggiare l’epidemia, è persuadere le comunità locali che questi bambini non sono necessariamente contagiosi e potrebbero essere accolti dalle famiglie sopravvissute, una volta trascorso il periodo di 21 giorni di quarantena.
“In Africa occidentale c’è la consolidata tradizione di prendersi cura dei bambini di coloro che vengono a mancare. A tal riguardo, l’attività di sensibilizzazione può avere un ruolo decisivo. Possiamo persuadere la gente che questi orfani non rappresentano più un rischio dopo 21 giorni di isolamento. Ma ci vuole molta perseveranza”. Ciononostante, “Si cominciano a vedere i primi risultati e alcune famiglie hanno aperto la porta della loro casa a questi bambini”, dichiara Dannat.
La lotta contro l’Ebola non può quindi limitarsi ad azioni mirate a prevenire il contagio e curare coloro che sono stati colpiti dal virus. Anche chi sopravvive ha bisogno di essere aiutato. L’esclusione sociale è infatti una delle esperienze più dure per un essere umano. Si ritiene addirittura che possa avere sulla salute umana lo stesso impatto dell’obesità, del fumo e dell’alta pressione.
La lotta contro la marginalizzazione sociale può e deve essere vinta. Le comunità locali vanno educate in merito ai reali rischi di contagio. I parenti degli orfani vanno sostenuti e incoraggiati ad accogliere questi bambini nelle loro famiglie.
E le organizzazioni umanitarie impegnate sul campo vanno sostenute. Gli orfani dell’Ebola hanno già sofferto abbastanza quando hanno perso i loro genitori. Risparmiare loro il dramma dell’isolamento è un dovere morale.
Un appello che non può essere ignorato.
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